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1. PARTE PRIMA (Una vita da raccontare)
Sorrento, estate 2008.
Antonino Cappiello, per far conoscere agli amici la propria vita nei minimi particolari, dibattendo le ali, lusingherà forse il sonno degli altri lettori.
Introduzione
Giovedì, 6 giugno 1935, alle ore 15.00, la levatrice arrivò in casa dove era già tutto pronto, per portare alla luce il sottoscritto. Da quel momento si è srotolata una vita avventurosa e stupenda che vale la pena, per me di riviverla, e per il lettore di seguirla. Non che ci sia qualcosa da elogiare, né da disprezzare, si tratta solo di mettere in luce la pura verità, la quale, come per tutte le cose, non ha bisogno né d’approvazione, né di denigrazione. Insomma, dire pane al pane, e vino al vino.
La prima cosa da rimarcare è che mia madre, dopo avermi baciato e sistemato al seno per la prima poppata, guardando il quadro della Bella signora del Cielo che le stava di fronte, avrà recitato: Cara Madonnina, affido a te il primo frutto del mio seno. Fa che ti ami senza limiti, e tu proteggilo. Fa che non si allontani da me, e che io gli stia sempre vicino. Ave Maria…. Questa premessa si è resa necessaria per dare al lettore la possibilità di capire meglio quanto di seguito sarà esposto. A tale proposito voglio ricordare che molte cose possono apparire non chiare, contraddittorie o addirittura mancanti. Invece di star lì a borbottare o a cavillare, l’amico lettore mi rivolga la domanda a voce o per iscritto, ed io non mi tirerò indietro per soddisfare i suoi dubbi, rispondere alle eventuali curiosità e offrire i chiarimenti del caso. Grazie.
Dei primi anni di vita non ricordo molto, tranne il fatto che passavo parte del giorno con la nonna Maria, quando mia madre si allontanava per qualche lavoretto in casa altrui o nel giardino di un vicino, per tirare avanti. Una cosa però mi è rimasta impressa. In quel tempo si raccoglievano le olive a mano. Mia madre con altre donne in fila, chine, mentre si davano da fare per riempire i cesti, io rimanevo seduto dentro una cesta bassa con sotto un panno, alcuni metri più avanti delle raccoglitrici. Quando arrivavano presso di me, mia madre spostava la cesta più avanti, e così fino alla fine del lavoro. Prima che me ne dimentichi, ricordo che la mia mamma mi ha allattato fino a due anni ed oltre. Non solo, ma che aveva latte in abbondanza, e altre mamme a cui mancava, portavano i figli a casa per essere allattati. Più di una volta eravamo, io ed un altro infante, attaccati uno ad un seno, ed uno all’altro. Per questa sua prestazione mia madre non chiedeva una ricompensa economica, ma non disdegnava l’omaggio di un po’ d’olio, di qualche frutto, o di una manciata di fagioli. Tali comportamenti, impressi nel mio subcosciente, mi hanno portato ad essere aperto e generoso nei riguardi del prossimo, mi hanno indotto a cercare sempre il bene dell’altro.
Il fatto che non lo faceva per commercio, vale a dire senza chiedere soldi in cambio, ha forgiato il mio carattere ad essere distaccato dall’accumulo di ricchezze, cosa che non mi ha mai interessato. Due anni dopo di me, nacque mio fratello Francesco. Tre anni dopo, scoppiò la Seconda Guerra Mondiale. Io 5, lui 3 anni.
Come abbiano fatto i nostri genitori, a portarci avanti, per me rimane un mistero. Sì, fino ad un certo punto, perché più che un mistero, è un miracolo, grazie alle confidenze di mia madre con la Bella Signora. Dal 1940 iniziarono i bombardamenti, e durarono fino al 1944. Da casa vedevamo i bagliori e udivamo e rombi delle bombe. Mia madre ci portava vicino al balcone, e vedendo e sentendo, ci teneva abbracciati, lei in ginocchio, noi in piedi, e recitavamo insieme l’Ave Maria ed altre orazioni. Sta di fatto che mai una bomba cadde presso di noi, né una scheggia. Queste circostanze approfondirono sempre più in me la confidenza con la Bella Signora, tanto che a volte mi sembrava di essere cullato e baciato da entrambe. Nel 1940 arrivò Maria Cristina e nel ‘46 Maria, che pose termine alla figliolanza. Per quanto mi riguardò avevo 11 anni. Ebbene, in questi frangenti, per procurare un tozzo di pane, mia madre ha fatto di tutto, ma non ci ha mai abbandonato, non ci ha mai affidato ad alcuno, non ha mai permesso che altri facessero per noi quello che lei riteneva suo dovere. Il fatto mi ha talmente condizionato, che durante gli anni del mio insegnamento non ho mai permesso agli alunni di stare lontano da me più di quanto potessi vederli, ed erano guai per chi li rimproverava o li mortificava o li toccava. Chi non è in grado di gestirsi da sé, o di difendersi dai soprusi, merita rispetto e devozione, parlo di bambini e d’anziani. L’unica cosa, che al momento mi fa soffrire e a volte piangere, è proprio questa. Ritornando a noi, ricordo che nel 1944, il Vesuvio eruttò cenere e lapilli. Tutti subirono danni, ma non noi. Indovinate perché? Nello stesso tempo arrivarono le Truppe di Liberazione. Gli Inglesi presero alloggio in un sito di fronte al giardino di casa nostra. Mio fratello ed io ci appropinquammo nella speranza di rimediare un boccone. I Soldati capirono e ci chiesero di sbrigare alcuni lavoretti: lavare i piatti, scopare per terra, spostare scatole di viveri, eccetera, robe da ragazzi. In cambio ci davano un piatto di farina di ceci o di piselli, qualche wurstel e delle scatole di carne da portare a casa. Fu allora che assaggiammo anche i biscotti, le gallette e la marmellata. Così facendo ho imparato a mangiare di tutto, a non fare lo schifiltoso, e a dosare le razioni. Ancora oggi non esiste un piatto che non gradisco o che non digerisco. Nelle abitazioni di quel tempo non c’era luce, né acqua, né gas. Si cucinava a legna, e a sera si accendeva la stearica. Il riscaldamento era fornito da un braciere a carbonelle. Abitavamo nel rione Trinità sul territorio comunale di Piano di Sorrento. Sulla strada, a pochi metri da casa, c’era una fontanina per tutti. Nel momento in cui serviva acqua in casa, riempivo il secchio e lo portavo sotto il balcone. Mia madre, di sopra, lo tirava con una cordicella. Per lavare ed imbiancare i tessuti mia madre usava cenere di legna ed acqua bollente dal nome comune di liscivia.
Ritorniamo all’alimentazione. Nel periodo autunnale, io ed altri coetanei, ci recavamo in un bosco non lontano, a raccogliere le castagne per poi mangiarle lesse o arrostite. Talvolta, potendo, mia madre ci preparava il castagnaccio, schiacciata di farina di castagne con semi di finocchio, mandorle e pinoli. Allora era una festa. Forse mia madre stravedeva per me, mi ammirava in modo eccessivo, al punto da non essere imparziale nei miei confronti, “forse” ripeto, perché non ne sono certo. Da parte mia non potevo fare a meno di lei. Lo dimostrano le circostanze della vita che ci hanno impedito di dividerci.
Nessuno di noi le ha cercate e nessuno di noi le ha rifiutate: era scritto in cielo, e di questo sono sicuro. In uno di quegli anni tremendi ricevetti la Prima Comunione e la Cresima. Circa i divertimenti, mia madre non ci faceva mancare niente, tempi permettendo. Il 14 agosto, tutti noi andavamo a piedi a Positano, per la festa dell’Assunta. Il 29 giugno e il Giovedì Santo ero presente nelle processioni. A Natale il presepio. In estate i bagni di mare. Sempre con lei. Ciononostante una volta stavo per affogare. Giunto allo stremo, prima di esalare l’ultimo respiro, una mano benevola mi tirò su e mi depose sugli scogli. Chi fu?
Ho raccontato già molto, è vero, ma non posso tacere altre due questioni. Postura. In 93 anni, mai ho visto mia madre seduta scompostamente, vestita poco decorosamente, impaziente, precipitosa, poco cortese, senza sorridere. Parlare. Non parlava molto, non imponeva, diceva la sua, ma lasciava liberi, mai una parola fuori posto e meno che mai una bestemmia. L’impressione per me è stata così forte che sono diventato un suo clone perfetto in questi due ambiti. Grazie.
(41-46) Elementari e Medie (47-50)
Dei primi tre anni delle Scuole Elementari, ricordo quasi niente tranne il fatto che sedevamo su banchi di legno a due posti. Al centro del banco c’era con un calamaio di cristallo dove ogni tanto la bidella veniva a versare dell’inchiostro da una caraffa con il becco lungo. Sulla penna a mano s’inseriva il pennino a cavallotto. In tal modo, la grafia, o era una pittura, bella al solo vederla, o era un ammasso di scarabocchi. Per quanto mi riguardava, sentii in me un innato trasporto verso la chiarezza, la bellezza, la precisione, e m’impegnai a scrivere così bene che ancora oggi sono ammirato per questo. Nessuno lo pretese e nessuno me lo insegnò. Circa la formulazione grammaticale del pensiero, sia orale sia scritto, mi dedicai istintivamente alla lettura per captare la precisa dizione espressiva. Fu allora che incominciai ad avere i primi dubbi su quello che sentivo dire. Alla mia richiesta di chiarimento si rispondeva con una risata, o con un “stai zitto”, se non con un ceffone. Ebbene, proprio per questo sono diventato critico e sottile, fino a volere spaccare il capello per metà. Non per odio o disprezzo naturalmente, ma perché non approvo l’equivoco, né il dozzinale, né il superficiale. Insomma, non intendevo, e meno ancora adesso, essere ingannato. Voglio chiarezza e conseguanzialità. Con il passare del tempo mi sono orientato alla ricerca della verità in campo religioso, e in particolare sul problema della fede, della preghiera, del peccato, e tante altre robe di cui sarà parola in seguito. L’ambiente sociale non offriva alcuna possibilità di migliorarsi. Mia madre mi amava, mi curava, ma non aveva la capacità di elevarmi psicologicamente e culturalmente. Secondo me, cosciente di tutto questo, avrà rivolto mille preghiere alla Grande Signora affinché supplisse lei alla sua incapacità. Non riesco a spiegare diversamente il mio graduale progresso. La devozione alla Signora incominciò ad essere più profonda, intima e personale da quando mia madre, poco prima del tramonto, ci riuniva intorno a sé per la recita del Rosario, ogni sera. La preghiera terminava di solito un momento prima che mio padre tornasse dal lavoro. Era un bracciante agricolo alla giornata. Fuori della famiglia l’ambiente sociale era formato da persone analfabete, rozze ed egoiste. Non che è un disprezzo per quei poverini, ma è la semplice verità su ciò che offriva il sociale negli anni in questione. Ritornando a me, mi dilettavo a ripetere le poesie fino ad impararle a memoria, per poi declamarle con sussiego. Siamo arrivati alla fine della terza elementare e la guerra sta per finire. Nel settembre del ’44, mia madre m’iscrisse alla classe IV privata delle Suore d’Ivrea, distanti da casa 1 Km circa. Gli sforzi che fece lavorando per conservare i soldi delle rette mensili, sono scritti in cielo, ed io lo saprò solo, quando la raggiungerò. Al momento dico: Grazie. E non è finita. Dal 15 settembre al 15 giugno, ogni giorno, tutte le mattine, senza mai un’assenza, mia madre mi accompagnava a scuola, e al termine era lì di nuovo per riportarmi a casa.
Può sembrare insignificante questa citazione, caro lettore, ma sta attento alle conseguenze che mi hanno plasmato. Ho scritto nel mio DNA che da scuola non ci si deve assentare. Non l’ho mai fatto negli anni seguenti di studio e nemmeno durante gli anni del mio insegnamento. Dagli alunni ho preteso la stessa cosa e affermo con orgoglio che in questo campo sono miei cloni perfetti. Non che è un vanto, piuttosto è la norma che funziona spontaneamente e senza fatica. Ho imparato a camminare a piedi, a testa alta, con il busto eretto, spalle larghe, senza fretta precipitosa e senza lemma nauseante. Sostengo che per raggiungere il proprio scopo non si deve aver bisogno di niente e di nessuno. Il riflesso in campo civile è la spintarella e la raccomandazione. Il riflesso in campo religioso è quello che l’Essere Creatore non può essere conosciuto attraverso informazioni dozzinali che lo predicano come crudele, nepotista e disattento. Infine ho imparato la puntualità. Possedevamo in casa un vecchio orologio “Veglia”, e al momento dell’ora puntata, strillava come una sirena di una fabbrica. Allora, tutti giù dal letto, a pié pari, per lavarci, andare al bagno e far colazione. D’inverno, prima si rompeva la lastra di ghiaccio che si formava sul secchio pieno d’acqua esposto sul terrazzo: infilavo furbescamente due dita per mano nel buco, e mi lavavo gli occhi prima che mia madre se n’accorgeva. Nei giorni di pioggia ci trascinava a scuola con gli zoccoli. Giunti nell’androne, con un ginocchio a terra, mi asciugava i piedi, m’infilava calzini e scarpette asciutte che portava in una borsa, e mi spediva in classe. Al termine della scuola era di nuovo lì per riportarmi a casa. L’esercizio della puntualità mi ha segnato con un marchio indelebile. Mentre scrivo, rivedo la vita passata, e non riesco a ricordare una sola volta in cui ho mancato ad un appuntamento, o sono arrivato tardi da qualche parte. Dai miei alunni ho preteso la stessa cosa con la sigla: Non un minuto prima, né un minuto dopo, e sono orgoglioso dei risultati. Poco fa ricordavo che mamma parlava poco, ed ora con il senno di poi, la pongo addirittura sul piedistallo. Non lo sapeva teoricamente, ma lo intuiva con la luce che riceveva da una mente superiore a cui era legata per amore. Oggi sappiamo che l’educatore influisce sulla formazione dell’educando in ragione delle seguenti percentuali: intervento verbale 8%, non verbale 55%, paraverbale 37%, ed io concordo. Insomma, si educa poco con le parole, molto di più con l’esempio e con i segni. Le parole ingannano, il corpo non mente, ricorda il filosofo. Mettendo insieme 55 e 37, raggiungiamo una formazione del 92%, molto, se lo mettiamo a fronte delle chiacchiere che influiscono quasi niente. Non so se ho cantato bene l’antifona.
Lo stesso vale per il campo religioso, più si parla e meno si ottiene. Mia madre ha parlato poco e mi ha formato assai. Chi legge rifletta. Grazie.
La scuola delle Suore d’Ivrea. Paragonata alla mia modesta casetta, era una reggia, ed era quel che mia madre voleva per me. Corridoi lunghi, larghi e lindi, con mattonelle d’epoca. Attintata tutta di bianco sembrava che per poco non spiccasse il volo in cielo.
Grandi finestre immettevano luce da un immenso cortile interno dove si giocava e si faceva ginnastica. C’era una vasta Cappella elegantemente ornata. Le aule erano spaziose e con la luce da sinistra. Un immenso refettorio ci accoglieva per il pasto. Insomma, per non tirarla a lungo, ricevetti il meglio che a quei tempi si poteva avere, e mentre lo scrivo, sento che la mamma e la Signora mi guardano compiaciute per la mia riconoscenza. Ad entrambe dico: Grazie e Scusatemi. Adesso ho 11 anni. Con il diploma di quinta andiamo per l’iscrizione alla prima media. La Scuola era situata in un palazzo antico dove adesso ha sede la MSC, presso la Ripa di Cassano. Dista da casa2 Km circa. Si sale nel palazzo da un ampio scalone ad elica per raggiungere i due piani dove si trovano le aule. Altri dolori, maggiori fatiche. Ormai sono grande e vado e vengo da solo, con i libri e i quaderni sotto il braccio. Gli insegnanti sono esigenti e pretenziosi. Inizia la croce del latino. Trovai un poco di difficoltà all’inizio, è vero, ma poi mi adattai e mi apparve interessante. Togliendosi il pane di bocca, mia madre mi comprò il vocabolario di latino. Penso ai lunghi pomeriggi passati seduto davanti alla ribalta di una scrivania antica per eseguire gli esercizi traducendo in e dal latino.
Con il tempo e la costanza mi assuefeci alla lingua e ne diventai padrone. Inizialmente imparavo a memoria le Favole di Fedro. In seguito, servendo i riti liturgici come chierichetto, fui colpito da 4 leccornie evangeliche nella traduzione di San Girolamo, e non persi tempo a ficcarmeli in testa: l’annunciazione ed il samaritano da Luca, i re magi da Matteo, il prologo di Giovanni. Credete forse che oggigiorno li abbia dimenticati? Certo che no! Intanto pensavo a quei poveri fedeli che durante le letture della Messa guardavano il cielo, spazientiti, e alle donne che recitavano il Rosario borbottando e ammiccando in giro. Allora mi venne in mente una cosa mostruosa per quei tempi: Perché non si traduce tutto in italiano? E aggiungevo: Tra il non capire niente e officiare in lingua nazionale, non è meglio la seconda ipotesi? Lo chiesi al parroco, ormai al tramonto della vita, il quale non mi rispose, e forse non capì la questione. Domandai al prete giovane, che mi rise in faccia. Ne parlai al confessore, che per poco non mi negò l’assoluzione. Eppure, avevo colpito il centro, 10 punti alle Olimpiadi. Il Concilio Vaticano II prese la palla al balzo e diede seguito alla mia proposta. Vinsero le lingue nazionali. Non che siano meglio del latino, il problema che conta, è capirci meglio. Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile ed attenta, e sempre di mirare facevasi accesa. In quel periodo ricevetti la Prima Comunione dopo un periodo di preparazione. Facevano da catechiste alcune vecchie zitelle acide e nepotiste. L’unica loro preoccupazione era quella di tenerci a bada e obbligarci a mandare a memoria il catechismo di Pio X. Non male di per sé, disdicevole era invece la possibilità di ricevere un chiarimento dopo aver posto una domanda mirata. I tempi non lo permettevano purtroppo. Quello però che mi faceva sorridere, e che poteva essere evitato, fu la farsa della prima confessione.
Si andò alla ricerca di qualche gesto o parola che alla catechista poteva sembrare peccato e si suggeriva di dirlo al confessore per ricevere l’assoluzione. Non so se oggi le cose stanno diversamente, ma è verosimile rispondere positivamente per il fatto che ancora non c’è la definizione di peccato, tranne quella riportata dal CCC al numero 392. Ad ogni modo, per me la domanda è sempre la stessa: Perché si fugge dalla confessione? O c’è una risposta, o non c’è. Nel primo caso, bisogna darla, nel secondo caso, non ne parliamo più. Dopo la Comunione, il Parroco mi nominò chierichetto della “Trinità”, che era la dedicazione della Parrocchia. Puntuale come un orologio svizzero, io servivo in tutte le funzioni. Orgoglioso di onorare e servire l’Onnipotente Creatore, sentii spontaneo in me il dovere di presentarmi sempre ben vestito, di assumere pose distinte e modeste insieme, innanzi a tanto Signore. I riti liturgici erano quelli del Concilio Tridentino, e la conoscenza del latino mi aiutò a mandare a memoria quanto era richiesto nella celebrazione della Messa.
I riti della Settimana Santa mi affascinavano immensamente. Una cosa però mi dava un’atroce sofferenza fino a farmi scendere la goccia di sudore lungo la schiena. Il Venerdì Santo, c’era una lunga preghiera in cui si chiedeva l’aiuto di Dio per alcune intenzioni particolari. Ad un certo punto si supplicava: Ti preghiamo Signore per i perfidi ebrei, eccetera. La parola “perfidi” non mi andava di sentirla, e se fossi stato parroco l’avrei tolta di mia iniziativa. Ne parlai al parroco, ma non mi rispose. Mi sfogai con altri, e mi dissero che facevo peccato. Me n’accusai in confessione e fui preso per scomunicato. Eppure, non mi rassegnavo! Secondo me, si doveva togliere quella parola. Chiesi lumi alla Bella signora. Non mi apparve, è vero, però dopo la discussione con lei ero più tranquillo. Come andò a finire? Attesi fino a Giovanni XXIII, che senza tanti preamboli, cancellò subito la parola “perfidi” dall’orazione del Venerdì Santo. Avevo fatto centro di nuovo. Altra medaglia d’oro alle Olimpiadi.
Servire da chierichetto, tra gli 11 e i 14 anni, mi portò più dolori che gioie. Perché? C’è un’altra roba che mi brucia ancora: La purificazione della puerpera. Ogni tanto, nel primo pomeriggio, andavo a seguire e servire questo rito. Mi spiego. Ogni donna, dopo avere partorito, non usciva da casa per alcuni giorni, e per otto giorni non poteva entrare in Chiesa a causa della sua contaminazione per aver dato alla luce un figlio. Trascorsi gli otto giorni, i parenti prendevano appuntamento con il parroco, affinché la donna potesse “entrare in santo”, in altre parole essere purificata con un rito apposito, partendo da lontano sul piazzale della Chiesa, e raggiungere lentamente l’ingresso, tra benedizioni, preghiere, suppliche, stola del parroco sul suo seno, eccetera. Fino a ritenerla di nuovo degna di stare innanzi a Dio in santità. Tutto questo mi turbava molto, e mi faceva male sotto l’aspetto fisiologico e psicologico. Ma come? Anche mia madre ha dovuto subire quest’umiliazione per il solo fatto di avermi messo al mondo? E’ una vera crudeltà! Pensavo tra me!
Qui c’è da scambiare il giorno con la notte! Cotto dalle esperienze precedenti, non mi confidai con alcuno. A volte ci piangevo. Altre volte volevo essere prete per potere intervenire in qualche modo. Non nego di avere desiderato d’essere Papa per eliminare senza battere ciglio quel rito tragicomico e offensivo. Che dire? Lo ammetto, sono precoce, vado troppo avanti ai tempi.
Ad ogni modo, terzo centro! Il Vaticano II eliminò la “purificazione della puerpera”, e dal 1964 il rito è sfumato. Grazie Bella Signora, e scusa Mamma per quest’umiliazione.
Gli anni della Scuola Media furono 4, perché ripetetti la terza.
Con il 1950 passiamo all’Istituto Nautico, di cui sarà parola nella III parte.
Ormai sono un giovanotto quindicenne, e le connessioni sinaptiche tra i dendridi vanno man mano scomparendo fino a dare al soggetto quell’impronta di specifica originalità e rendendolo unico tra i viventi, come singolare è il suo DNA. Hanno concorso a creare il carattere, personalità e temperamento nello scrivente, l’eredità genetica, l’educazione materna, la scuola, l’ambiente, le circostanze e gli incontri occasionali. Adesso, l’Io tende a ragionare, riflettere e giudicare gli uomini, le cose e la religione, o con interesse o con disprezzo, relativamente a quanto innanzi posto sul tappeto. Riguardo al caso mio, mi orientai per capire in profondità ogni cosa senza lasciare nulla al caso, senza barcamenarmi nel dubbio, bensì partendo dalle basi e procedendo con rigore matematico e scientifico. Conoscere la matematica esistente è essenziale, sì, ma per fare un passo avanti. Studiare la scienza è ragionevole, sì, ma per apportare un successivo contributo. Nella Religione invece, cosa succede? Siamo fermi sulle basi poste dai Padri, si ripetono a pappagallo, e nessuno è riuscito a costruire fino ad ora nemmeno il primo piano. Bisogna ammettere che la Religione non va al passo con i tempi. Un primo intervento si è avuto con Benedetto XVI. Mi spiego. Si è pensato e immaginato per 2000 anni ad un posto dove erano confinati i neonati morti senza battesimo. Per i miei gusti, l’Onnipotente Creatore era presentato come un Essere crudele e nepotista, dunque degno di non meritare rispetto e amore. Il pensiero si acutizzava sempre più in me riflettendo sul fatto che un Dio Onnisciente non poteva creare il Limbo. Bastava approfondire il concetto d’infinito per arrivarci. Tuttavia fu questa, una delle crisi personali che mi orientarono a cambiare mestiere. Non ci crederete, ho aspettato a lungo, e finalmente Benedetto mi ha dato atto che anche questa volta avevo fatto centro, 40 anni dopo. Dal 2007: E’ inutile continuare a credere al Limbo. E’ un luogo mai esistito. Grazie Santità!
Tante altre cose le diremo in seguito. Per ora mi fermo qui, caro amico lettore, e ti ricordo: Prima la basi, poi l’anabasi.
Fine prima parte.