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4. PARTE QUARTA (Una Vita da raccontare)

Il Seminario Pio XI di Salerno

 

Accompagnai mamma e l’amico nostro all’uscita del Seminario, li vidi partire e ritornai in Camerata. Mi sedetti un poco sul letto e pensai addolorato ai sacrifici cui mia madre stava per sottoporsi, e per colpa mia. Mi spiego! Avevo detto sorridendo a mia madre: Mi vuoi lavare tu i panni sporchi, invece di mandarli alla lavanderia del Seminario? Quasi scherzavo, ma lei prese sul serio, la richiesta: Sì, verrò a Salerno, una domenica sì, e una no; ti lascio i puliti e mi prendo gli sporchi. Ognuno di noi, forse, preferiva il contatto con l’altro. Le sofferenze che sopportò, le umiliazioni che accettò, il lavoro e lo stress a cui si sottopose, è tutta roba scritta in Cielo, ed io non capirò mai niente finché non farò parte anch’io della schiera celeste; lo spero e me lo auguro. Nell’attesa chiedo quotidianamente alla Signora che ogni giorno, a mia madre, si aggiunge un grado di gloria, tanto da farla diventare l’invidia di tutti i Santi. L’unico conforto per me, è che a quei tempi mamma aveva 50 anni. Usciva presto al mattino. Bus sotto casa fino a Piano, Stazione. Treno fino a Pompei. Tratto a piedi. Altro treno fino a Salerno. Di nuovo a piedi fino al Seminario. Stesso percorso faceva al ritorno, senza contare i tempi d’attesa, per le coincidenze. Grazie mamma! In questi 5 anni, mai successe un imprevisto, né per salute, né mai un dolore di testa; mai un raffreddore, mai uno sciopero dei mezzi pubblici, mai altro, né per me, né per lei. Grazie Signora! Bastava che una sola volta accadesse un qualsiasi incidente, che sarei tornato sui miei passi. In verità devo giurare che me l’aspettavo; ma non avvenne. Caro lettore, se non mi sono espresso bene con quest’ ultima battuta, prego, continua a leggere.

Per chi non conosce il Pontificio Seminario Regionale Salernitano-Lucano Pio XI di Salerno, pensi al Castello di Versailles, alla Reggia di Caserta, alle Ville sulla Loira, e avrà un’idea di come appariva a me la struttura in cui io ero entrato per rimanerci 5 anni. Mi alzai in piedi, mi guardai intorno, e mi misi alla scoperta del Seminario. Diversi padiglioni a terrazza fungevano da dormitori, e ognuno di loro poteva contenere un numero enorme di studenti. Nella zona servizi c’erano lavandini, pediluvi e WC Turchi. Il reparto docce, era nel sottoscala. Per lavarsi c’erano a disposizione d’ogni soggetto, due loculi verticali. Anche lì dentro bisognava entrare con la sottana. L’assenza di ventilazione rendeva l’ambiente una sauna finlandese, per questo asciugarsi e vestirsi diventava un gesto tragicomico. Sui pianerottoli dei dormitori erano sistemati degli harmonium su cui sarebbero andati a strimpellare dei principianti incapaci, in modo da rendere l’ambiente ancora più malinconico. Nella sala da pranzo, detta refettorio, si ergeva un pulpito su cui saliva il turnante per leggere la vita di un santo, che nessuno ascoltava. 

Vidi in giro altri bagni a WC Turchi, poi, la sala missionaria, le aule di studio, le aule scolastiche, gli studi dei vicedirettori, dei padri spirituali, gli appartamenti per i Vescovi Ospiti, e la suite per il Card. Prefetto Pizarro. In fondo ad un corridoio si trovava lo studio del Rettore, con la sua vasta anticamera. Infine, in una zona riservata, erano situate le camere dei professori, tutti residenti in Seminario. Intanto che terminavo la mia scoperta in solitario, gli altri “vocati” erano giunti; ad un tratto la campanella avvertì che il pranzo era pronto. Dopo il pasto tutti noi andammo a passeggiare su degli enormi spazi delimitati, sistemati a terrazza sul declivio di una collina. Ognuno di quei campi da gioco era destinato ad una classe con non meno di 40 alunni. Durante la ricreazione non si poteva comunicare con i colleghi d’altri cortili non appartenenti al proprio gruppo. Il divieto era ancora più severo nella separazione tra filosofia e teologia. Un successivo avviso sonoro ci spedì in studio. Sedetti e pensai. Potrei mandare la biancheria in lavanderia! Mamma verrebbe lo stesso, ma senza il peso di una valigia. Bastava una sua parola, ma non la disse, ed io nemmeno. Pensai a quella grande struttura, a chi l’aveva ordinata, e a chi impose quel regolamento. Pensai al gran numero di 600 alunni, e lungimirante, quale mi credo di essere, dettai a me stesso un piano quasi irreale. Al Seminario Pio XI affluivano seminaristi dalla Campania e dalla Lucania. Molto numerose erano le diocesi in quel tempo, piccole e con pochi giovani per ognuna. Secondo me, conveniva riunire varie diocesi sotto un solo Vescovo, per crearsi un proprio seminario territoriale. Il gran complesso di Salerno non sarebbe più servito e si poteva vendere. Sembra strano, ma nel 2008, mentre scrivo, posso affermare che è successo esattamente come avevo previsto. Infine, pensai a me. In quell’enorme struttura, mi trovavo bene. Il mio piacere era di approfondire gli studi teologici in modo da svolgere la mia attività, non più sul mare, bensì nell’ambito della Penisola Sorrentina. Guidare le anime a Dio poteva essere affascinante come gestire le macchine sulle navi. Il bello fu, che non mi sentivo trascinato a seguire una particolare strada, perché tutte mi sembravano interessanti, e per tutte avevo inclinazione sufficiente. Ero convinto allora, e più lo sono adesso, che ogni attività è esaltante, e dà soddisfazione, quando si lavora con onestà e competenza. Avanti, dunque, 5 anni passano presto! Il sogno svanì, ed era ora di cena.

Durante l’anno scolastico 56-57 frequentai il Corso Filosofico Superiore. Studiai pedagogia e psicologia, con metafisica, teodicea e critica. Le discipline mi affascinarono più di quanto potevo immaginare. Non trovavo problemi, anzi alimentavo il desiderio di sapere. Assaporavo la mia giovinezza come uno stato dello spirito, un effetto della volontà, una qualità dell’immaginazione. Provavo un’intensità emotiva fino al turbamento. Gustavo la vittoria del coraggio sulla timidezza. Mi affascinava l’odore dell’avventura sull’amore del conforto. Sfidavo gli avvenimenti e trovavo gioia nel gioco della vita. Ero certo dell’aiuto di due Signore.

 I docenti si mostrarono all’altezza delle mie attese. Spesso riandavo all’avvertimento della Signora: La via del mare non è la tua strada! Mi veniva in mente la graziosa prepotenza di don Oreste nel costringermi ad imboccare una strada diversa. Meditavo sulle parole di mia madre: Figlio mio, quello che fai tu, va tutto bene! Mentre procedevo negli studi, mi accorgevo che le mie esperienze fatte in Azione Cattolica, andavano prendendo un colore scientifico. S’incominciavano pian piano a tracciare le prime tattiche nell’ambito psico-pedagogico. La metafisica m’insegnò il modo di pervenire alla spiegazione dei principi essenziali della realtà che si trovava oltre i dati dell’esperienza. Con la critica poi, riuscii a rendermi conto del processo mediante il quale la ragione umana prendeva coscienza dei propri limiti e delle proprie possibilità. Bella, stupenda, mitica critica! Mi servirà in seguito per decidere autonomamente; e per insegnare ai miei alunni, sul come affacciarsi al Mondo ed entrare nella Vita a testa alta.

Nei 4 anni di teologia studiai Dogmatica, Morale, Diritto e Scrittura, a cui si aggiunsero Esegesi, Liturgia e Ascetica. Ero così felice da sembrare matto. Ero ricettivo a ciò che era bello, buono e grande. Ero disposto a ricevere i messaggi della natura, dell’uomo e dell’infinito senza limitazioni. Il Mondo intorno a me, vicino e lontano, esisteva ancora? Non so rispondere! La dogmatica divenne il mio pallino preferito, essendo il fondamento della Religione. L’ho coltivata assiduamente per 30 anni, finché nel 1985 riuscii a laurearmi dai Gesuiti, ed ottenni il Dottorato di Ricerca in Teologia Dogmatica, gran relatore Pier Sandro VANZAN. La Morale la studiai su un librone scritto in latino, e con un prof che parlava latino. Dopo 4 anni, la lingua latina era in mio possesso. Con la Scrittura imparai a leggere e ad interpretare la Bibbia, unitamente all’Esegesi. La Liturgia, come complesso degli atti cerimoniali pubblici destinati al culto, mi fece molto pensare allora, e mi fa rabbrividire oggi, per la superficialità con cui si operava innanzi all’Onnipotente Signore. Su come raggiungere la perfezione cristiana, mi venne in aiuto l’Ascetica. Ci tenevo tanto a questa disciplina, che, quando nel 1967 frequentai l’Università Gregoriana a Roma, il primo corso che scelsi fu proprio l’ascetica, con il prof Latourelle s. j. e con votazione “10”.

Al termine degli studi, chiunque si aspetterebbe un riconoscimento scritto, un cerficato, un diploma, una pergamena, che attesti il corso universitario seguito. Invece niente! Nessun titolo, per questo dopo l’ordinazione sacerdotale, sei un semplice analfabeta, e non si può dimostrare niente a nessuno. E’ un cappio mortale, una spada di Damocle, per obbligarti a rimenare prete volente o nolente. Addirittura, a Salerno, quelli che chiedevano di presentarsi in una scuola statale per la licenza liceale, erano dichiarati “senza vocazione”, e cacciati dal Seminario. A me personalmente, il fatto non mi toccava. Un diploma già l’avevo.  Il pensiero però, che il popolo cristiano, doveva avere a che fare con degli “analfabeti”, francamente non mi andava giù.

 

La questione, ripeto, il mio “IO” non riuscì a digerirla e stimolò in me una sì gran fame di titoli di studio, che fu poi un’avventura collezionarli nel prosieguo della vita. Gli studenti del seminario, innanzi a questa lugubre prospettiva, s’impegnavano poco o non studiavano per niente. Alla fine, il “6”bisognava darlo per forza, da parte dei professori, per non mettersi contro i Vescovi e subire i loro interventi. L’unico Vescovo che mai visitò Salerno, fu S. E. Mons. Carlo Serena, di Sorrento. Forse era del mio stesso parere, e nulla poteva fare verso il Card. Prefetto.

Una volta l’anno, in Seminario si tenevano gli Esercizi Spirituali per una settimana. Fu qui che incominciai a pensare se avrei fatto una buona scelta. Il fatto di presentarmi ai fedeli senza un titolo di studio mi faceva rabbrividire. A questo punto ero ancora in tempo per lasciare. Aspettavo un’occasione più seria per farlo, ma non capitò, e non volevo passare per un matto da legare.  Non so con quale criterio erano scelti, o imposti, gli oratori. Degli “esercizi” non ricordo nulla, tranne i miei pensieri, ed è già tanto. Un anno si presentò un conferenziere che si esprimeva così velocemente da far invidia ad una freccia scoccata. Si giustificò affermando che la velocità era indice di quantità, come avviene in autostrada rapportando tempo e velocità. Un’altra volta si presentò un Vescovo che in seguito io avrei ricordato come Croce tra le sbarre. Raccontò che era stato in carcere e aveva molto sofferto. L’ultimo giorno tirò fuori un cartone pieno di libri per venderne uno ciascuno. Sulla copertina c’era la sua faccia dietro una grata, e il titolo recitava: Croce tra le sbarre! Ogni tanto, dopo cena, in un salone adatto, i giovani assistevano alla proiezione di un film. Vicino al proiettore sedeva vigile il Vice Rettore. La sera di cui ho riferito, stava per appropinquarsi il fotogramma di un bacio. Il Vice subito oscurò la pellicola. Da qualche parte si sentì: Ooooh!  Il Rettore si alzò, “con gli occhi di brace”; accese le luci e gridò, indicando tre file: Una due, tre, tutti a letto, subito! Dopo l’uscita, continuò la proiezione.

I dirigenti. Per andare a conferire con il Rettore, c’era una fila lunghissima in anticamera, illuminata “a lanterna”. Sempre attesa per un vice rettore, per un padre spirituale, o non so per che altro. In poche parole, tutto questo movimento contribuiva a vanificare ulteriormente la già precaria applicazione allo studio. Molti giovani sembravano confusi da un insegnamento martellante ancora oggi in uso. S’indicava come azione peccaminosa il liberarsi dalle produzioni prostatiche, impossibili a contenersi, come le urine o altro. Di giorno e di notte, il liquido espulso dall’uretra durante l’eiaculazione e ricco di spermatozoi, con intervento o meno esterno, è sempre grave offesa di Dio. Eppure, è noto anche all’uomo della strada, che trattenersi di proposito, controllarsi, farlo per penitenza, scombussola la psiche e impedisce la tranquillità fisica. In pratica, lo sforzo in tal senso, rende psicopatici e, invece di avvicinare a Dio, n’allontana. Questi erano gli studenti che fra non molto, dovevano andare ad insegnare agli altri, morale e dogmatica.

Le code, così, presso gli studi dei padri spirituali, si allungavano senza fine. I giovani chiedevano l’assoluzione per un gesto o un’azione per la quale non si poteva emettere nessun proposito allo scopo di evitarlo in futuro. Si fingeva di curare pazienti affetti da malattia ad eziologia sconosciuta o ignorata volutamente. Giovani di 20 anni trattati come beoti, calpesteranno gli altri a loro volta. Educati ad essere statue di gesso, a procedere senza successo, faranno ridere il Mondo. Sicuramente ci sarà una testa di legno che sorriderà amaramente, dopo aver letto queste righe. Certo, lo so, non è compito mio entrare in questo campo. Ho espresso solo un mio parere personale a norma dell’art.21. Inogni caso, il soggetto che ha migliori notizie da offrire al pubblico, descriva pure liberamente la sua posizione al riguardo, e la dia in pasto ai lettori affinché essi giudichino lui e me. Grazie. Durante la permanenza a Salerno ebbi il piacere di conoscere il Card. Prefetto Pizarro, e il Card. Wizinsky Primate di Polonia. La corrispondenza s’imbucava aperta e riceveva dopo essere stata letta. A qualcuno potrà sembrare che io sputi nel piatto in cui mangio. No, non è così. Io apprezzo tutto, ma se nel piatto mi si mette un sorcio, io non lo mangio.

Facciamo un passo indietro, e andiamo a scoprire come sono passate le ferie estive nei 4 anni in cui le ho usufruite. Le vacanze dopo il corso filosofico, mi misero alquanto in crisi. Durante la visita al direttore spirituale, mi sentii consigliare di “non togliersi mai di dosso l’abito talare” durante il giorno. Chiuso in una piccola casa, durante il periodo del solleone, francamente fu molto duro. A stento mi allentavo il colletto. Mia madre mi guardava angosciata, e probabilmente soffriva più di me. Perfino il barbiere, per il taglio dei capelli, feci venire in casa. La parrocchia era deserta, e la gente andava al mare a prendere i bagni. Ritornai dal padre per parlare appunto di spiaggia. La definì un luogo di peccato, rischio per l’anima, assurdità mettersi in costume da bagno. Per quell’anno mi scordai del mare. Mi ricordai al tempo stesso, che non ero più un pivello. Dopo due anni di filosofia e di psicologia, la mia mente incominciava ad inquadrare le questioni, le discuteva ad eziologia nota, e tirava conseguenze oggettive. Da parte mia, sono accondiscendente quanto si vuole, però nessuno mi deve imporre ciò che non condivido, specie se opinabile, e se insiste, non combatto, lascio e che s’è visto, s’è visto. Prima di ritornare a Salerno, chiarii con il Padre, che se la prossima estate non era possibile prendere i bagni di mare, il mio percorso verso il sacerdozio finiva lì.

Molte anomalie della vita religiosa incominciavano a turbarmi prepotentemente. Prima di tutto, la mancanza del senso civico; e in particolare il venir meno alla parola data. In quel tempo la Curia era in mano a don Pera e don L’Uva, il primo come vicario Generale, l’altro come Cancelliere. Don Oreste mi aveva promesso che la Curia, senza fare nomi, mi avrebbe mantenuto in Seminario. Molto frequentemente invece, dovevo scrivere e sollecitare il saldo, altrimenti il Rettore Straverro mi escludeva dagli esami finali dell’anno in corso.

In realtà, io non lo chiesi e non lo pretendevo, mi fu offerto, e ora dovevano darmelo. La scelta era immediata, tuttavia non si verificò.

Sono certo che la Signora non lo permise. Voleva condurmi fino al momento in cui avrei ottenuto d’ufficio, la dispensa dal servizio militare nel 1965. Intal modo, dispensato dalla leva e scansata l’Accademia, già liberato dalla carriera d’Ufficiale Navale, mi si aprì la strada per iniziare gli approcci all’uscita dalla vita ecclesiastica. Osserviamo attentamente le circostanze: essendo destinato ad accudire mia madre, laSignora provvide ad eliminare ciò che poteva procurarmi serio nocumento, il mare e il militare. In seguito mi libererà dall’impegno con il sacro e dal matrimonio. Nessuna difficoltà doveva impedirmi di stare vicino a quella “santa madre Rosa”, perché così desiderava la Signora. Qualunque altra spiegazione, è fuori luogo. Personalmente sono certo che conoscerò le vere ragioni nel momento in cui le raggiungerò entrambe.

L’estate del 2° teologia mi riservò una bella sorpresa. Il padre mi riferì che aveva trovato la possibilità di recarmi al mare per i bagni. Dovevo andare con il bus di linea fino al Capo di Sorrento, entrare in una tenuta privata, e scendere fino al mare indossando la veste talare. Il posto si può descrivere come la foce ad estuario di un ruscello. Per terra tutte pietre arrotondate dall’acqua. Sopra di loro, sterpi, rami e tronchi secchi. Il sito mi piacque ed io tacqui. Potevo nuotare a piacimento nell’acqua limpida, tuffarmi con cautela e scendere in apnea. Non essendoci la possibilità di stendermi al Sole, mi dedicai a sprecare energie con sospensioni, sollevamento peso con i tronchi, esercizi con i bilancieri usando pietre, e sospensioni sulle braccia in quantità. Insomma, diedi al corpo quella quasi perfetta forma anatomica che avrei sempre curato in seguito. Ero solo per non dare scandalo. Ero l’unico per non procurare turbamento.  Al ritorno, su per l’erta, con la sottana indossata, mi sembrava di morire. Dal secondo giorno, in giardino, andavo senza. In quest’estate e la seguente, incominciai a disprezzare la veste talare; non in quanto abito in sé, ma per il fatto di doverla usare quando non era necessario. Addirittura progettai di eliminarla completamente e lasciare vestire il clero con abiti civili. Questa volta però, non dovetti aspettare a lungo, in quanto pochi anni dopo, il Vaticano II fece legge la mia posizione pensata a Sorrento.

Dopo il IV anno di Teologia, l’estate del 1961 non ci fu, perché dovetti pensare all’Ordinazione Sacerdotale. Per prima cosa dovetti seguire una settimana d’esercizi spirituali, come di prassi. Finalmente il 16 luglio del 1961 ebbi l’Ordine Sacro nella Cattedrale di Sorrento, per le mani di S. E. L’Arcivescovo Carlo Serena. La Domenica seguente, celebrai la Prima Messa Solenne nella mia Parrocchia di Trinità. Prima di procedere devo annotare alcune doverose riflessioni. Già non possedevo la qualifica di teologo dopo un corso quadriennale regolare di studi. Mi aspettavo che almeno adesso mi consegnassero un diploma o una pergamena in cui si leggeva la mia ordinazione all’ordine sacro. Niente.

Nello studio del medico, dell’avvocato, dell’ingegnere o del professore, è in evidenza, incorniciato, sulla parete dietro la scrivania, il titolo della laurea conseguita. Al suo fianco, eventualmente, pende la cornice con la specializzazione.

Per il clero, invece, non esistono titoli di studio e meno ancora specializzazioni. Tutti sanno fare tutto, e nessuno sa fare e dire niente. Devono apparire ignoranti come capre. A salvarli, c’è quell’ignobile titolo di “don” che si dà anche ai principi della malavita, ai briganti e agli usurai. In verità la cosa non mi piacque e cercai di capirne i motivi. Risposta: E’ una crudele realtà, sì, purtroppo, per impedire al clero di iscrivesi ad un’Università Statale e conseguire una vera Laurea. Si crede che tenendoli schiavi, si ottengono migliori risultati. Ma quali? Le grandi riforme della storia hanno sempre riguardato il clero: Agostino, Gregorio Magno, Ignazio, Teresa d’Avila, Benedetto, Francesco, Domenico, e mille altri. I giovani del 2008 sono più furbi e vogliono frequentare Facoltà Universitarie, sia pure religiose, ma che rilasciano un titolo di studio. Forse per questa ragione, Salerno chiuse i battenti. Fu un segno certo, della poca apertura mentale dei Duci Ecclesiastici, i quali avrebbero chiamato riforma, una presa d’atto; e sostengono che la Chiesa procede con cautela, sol perché i Capi non sanno prevenire i tempi. Mi dispiace, ma il problema non è mio. In ogni caso, non è un’accusa, non è una minaccia, e meno ancora un’offesa a chicchessia. E’ unicamente l’esposizione della verità dei fatti, per dimostrare a me stesso che la via imbroccata non era per me, per questo bisognava ritornare allo stato di partenza. Si trattava di baipassare due pericoli, superati i quali “non mi servi più”.

Nel caso io vorrei conferire con qualcuno, chi ascolterebbe? Uno solo se ne rese conto, Paolo VI, il quale, lette le mie ragioni, in 15 giorni mi dispensò.

Ritorniamo adesso alla Prima Messa Solenne nella mia Parrocchia di Trinità. Facevano da Diacono e da Suddiacono, don Albertino e don Martino. Quando la Messa giunse al canto del “Santo”, io mi fermai un momento per attendere la fine del canto, prima di dare inizio alla lettura del Canone e procedere alla Consacrazione. I due nominati erano inginocchiati sullo scalino dietro a me. Albertino, ad alta voce disse all’atro: Ma che sta facendo? Don Martino rispose: E che ne saccio? Che ne so? Pensai: Dove mi sono cacciato? Con quali individui devo avere a che fare? Me ne vado? Madonna mia aiutami! Pochi attimi furono, ma vissuti intensamente. Volevo abbandonare seduta stante, ma procedetti. Il momento critico che aspettavo, era giunto. Il proposito di uscire dall’ambito del clero orientò i miei prossimi dieci anni, fino al ritorno allo stato laicale concessomi da Paolo VI. Luglio e Agosto passarono come Dio volle.

Nelle visite all’Arcivescovo Serena battevo ogni volta di più il chiodo per un’ulteriore e più approfondita cultura teologica. Salerno era stato un antipasto che aveva acuito in me il desiderio di conoscere sempre più e meglio. Don Oreste, saputo il fatto, insisteva: Vogliamo preti santi, non dotti. Io ero del parere che occorreva la dottrina per raggiungere la santità. La scaramuccia durò due anni, durante i quali iniziai ad emanciparmi dal direttore spirituale. Oramai ragionavo con la testa mia, e l’imposizione diventava sempre più una mia parente lontana.

Devo anche aggiungere che, per quanto mi riguarda, un’attività vale l’altra, e non ho alcuna preferenza riguardo al lavoro da svolgere. Ogni roba, pertanto, deve essere fatta con coscienza e competenza. Oggi che scrivo non è cambiato niente, e sono disponibile per qualunque impegno, per qualsivoglia attività, di cui sarà parola in seguito, compreso il sacerdozio, ma come dico io, non con lo stile attuale.

Nel settembre del 1961, fui incaricato dal Vescovo a svolgere le mansioni di “prefetto” del Seminario Minore Arcivescovile. Era Rettore dell’ente, e Preside della Scuola Media Parificata annessa, don Carlo Persico. Questo mi assegnò tre ore settimanali di Religione nella Scuola, un’ora per classe. Ho qui davanti a me la certificazione dell’incarico per gli anni scolastici 61-62 e 62-63. Alcuni anni dopo, come vedremo, inviai al Provveditorato anche questo titolo per essere utilizzato nella ricostruzione della carriera. Mi fu rimandato indietro con la scritta: Privo di titolo!Un teologo uscito da Salerno dopo 4 anni di studi, uno pseudo-laureato, era un semplice analfabeta pescivendolo, e non aveva titolo per insegnare, e la certificazione era nulla. A quel punto, il fatto non m’interessava più, in quanto ero sul punto di passare il Rubicone, però ancora oggi mi rammarica vedere quel certificato datato 28 ottobre 1968; lo guardo e penso. Due anni in meno di pensione per una tragica realtà: Privo di titolo! Procediamo. Il compito di “prefetto” mi piaceva e quasi mi stuzzicava a perfezionarmi in pedagogia e psicologia, ciò che puntualmente avvenne. In realtà, sui due anni di Seminario, non c’è molto da raccontare, tranne gli aneddoti che seguono. Incaricata per le pulizie, era una donna di mezz’età con gli occhiali da vista ad alta gradazione. Un mattino, entrando il sottoscritto nel dormitorio degli alunni, vide la Signora che si asciugava gli occhi e si puliva gli occhiali con la tovaglia di un alunno. Le feci una bella sgridata e le imposi di non farlo più. Per parte mia l’avrei cacciata via seduta stante; ma il Rettore non volle procedere in tal senso. Ogni sabato, all’ora tot, veniva il padre spirituale don Oreste, per la confessione ai seminaristi e alla fine, la conferenza. Sul fatto che una confessione durava un’eternità, non m’interessava gran che. La predica era un’altra cosa. Una sera, durò fino alle ore 21 ed oltre. Aveva trattato: Analisi dell’atto di fede. Non che sia un male, solo che le stravaganze nell’orario portavano uno scombussolamento nella vita del Seminario, di cui il padre non si rendeva conto: Lo Spirito Santo così ha deciso! I giovani allievi si trovavano bene sotto la mia direzione, e questo mi lusingava.

Nel 1962, io e la mia famiglia, lasciammo la piccola abitazione di Trinità che mi aveva visto crescere, e ci trasferimmo a S. Agnello, fino al 1968. Ormai ero tranquillo e potevo disporre di un po’ di soldi.

Per prima cosa, nel 63 portai mia madre a fare un giro per l’Italia e le feci visitare Firenze, Torino, Milano, Venezia, tanto che mamma ricordava questo tour come la “visita alle 10 città”. L’anno seguente la condussi in visita alla Svizzera, attraverso il Bernina, da St. Moritz a Ginevra, Losanna, eccetera.

Nel ’65 incominciò la mia rivincita nel campo del sapere e sulla conquista e collezione di titoli di studio. Lo vedremo in seguito.

Proprio in quell’anno, 1965, si davano a Salerno gli esami per il conseguimento del Baccalaureato in Teologia. M’iscrissi, mi presentai e l’ottenni. Si trattava di ben poca cosa, rispetto a quello che desideravo. Era certo meglio di niente, per cominciare.

 L’anno in questione mi fu propizio per un’altra circostanza. Mi arrivò il foglio di Congedo Illimitato con la motivazione: Per eccedenza ai bisogni della Marina Militare, datato 01.12.65, Castellammare di Stabia. Nel ’66 m’iscrissi all’Istituto Orientale di Napoli per il conseguimento della Laurea in Lingue Occidentali: Inglese, Francese, Tedesco. Superai alcuni esami. Ad un certo punto, don L’Uva venne a comunicarmi una notizia meditata in Curia, con il suo superiore Vicario, poiché usò il “noi”. Ti lasceremo continuare gli studi all’Orientale a patto che tu metterai la laurea in lingue a disposizione della Curia! A dire il vero, questo gesto l’avrei fatto spontaneamente, prima di tutto per la faccia di S. E. Monsignor Serena, e quell’imposizione, mi bruciò. Abbandonai gli studi e mi persi la laurea in lingue occidentali. Meglio così che diventare uno schiavo di quei due. A me non piace combattere contro un muro per abbatterlo con la testa, e nemmeno preferisco offendere verbalmente. Lascio che ognuno segua il suo cammino, però bisogna lasciare anche a me la libertà di farlo. E’ chiaro che parlo di ciò che è lecito. Allo stesso modo, affermare: Preti santi, non dotti! Non è condannabile. E’ invece grave non permettere un orientamento diverso: Prima la dottrina, poi la santità. Il gatto e la volpe, con il loro trucco, pensavano di addomesticarmi; il direttore spirituale, con la sua loquela, credeva di irretirmi bloccandomi il pensiero. Non immaginavano nemmeno lontanamente che fra poco li avrei tutti ammansiti io, con la mia risposta, eclatante, come un ruggito, la dispensa.

In questi anni, come annotavo innanzi, vivevo con la ma famiglia a S. Agnello, in casa affitto. Per cronaca, devo chiarire che mio fratello e le due sorelle, appena sposati o subito dopo, acquisirono la loro casa di proprietà. Per me fu allora, ed è stato sempre diverso. Ho attuato l’impossibile, come vedremo, per entrare in possesso di una casa tutta mia. Non ci sono mai riuscito. Per incompetenza tua, penserà il lettore. Potrebbe essere, ma qui non è così. Ho assaporato la mano della Signora che ogni volta mi rimandava là dove il Sol tace. Non mi dilungo perché ne parlerò in seguito, abbondantemente.

Nel 62 avevo terminato il biennio come “prefetto” in Seminario e per conseguenza di prof di Religione alla Media Arcivescovile.

Dalla Curia fui spedito Vice Parroco a Bonea, dove regnava l’imperatore don Pagnotta, prete stolto, commerciante e psicopatico. Rammento solo che per ogni nonnulla alzava la voce come un Cerbero. Prepotente senza limiti, usava espressioni che nemmeno Dante osò mettere in bocca a diavoli e dannati. Quel periodo nero, ho voluto cancellarlo di proposito dalla mente e dal subcosciente. Non ricordo più niente, di là di quello che ho scritto. Meglio così!

Don Pagnotta, probabilmente, si recò in Curia a chiedere il mio trasferimento. Non gli faceva piacere un prete che aveva un suo carattere, uno stile personale, un orientamento diverso dal suo. Il gatto e la volpe si consultarono, immagino io, perché non ne fui sicuro, e mi mandarono vice parroco a Piano, dove dominava con autorità sovrana san Francesco Salassi, uomo invidioso, ignorante ed incompetente. Ho rimosso dalla mia psiche, definitivamente, anche quest’infausto periodo di pseudo-attività. Non posso pertanto, annotare nulla, tranne un particolare aneddoto che la dice lunga sul parroco di Piano. Seguitemi! Entrando nella sagrestia della parrocchia, si vede in fondo, un altare, e sulla sinistra, la scrivania dove normalmente sedeva don Salassi. Sulla sinistra c’è una porta che immette in un’altra stanza. Un giorno, mi trovavo in quel locale, porta chiusa, con alcuni ragazzi per una ripetizione scolastica. Nulla potevo sapere di ciò che avveniva fuori. Ad un certo dovette entrare una Signora, si avvicinò al parroco e gli chiese: Per favore, mi chiamate don Antonino, mi vorrei confessare! Mentre la donna si avviava al confessionale, il parroco si alzò, aprì la porta in malo modo, e di fronte agli alunni, gridò come un forsennato: Chi ti credi  di essere? Cosa stai facendo? Sono anni ed anni che io faccio il parroco, e la gente viene a chiamare te per la confessione? Non ti voglio più! Si sostiene che anche l’omelia domenicale la fai meglio di me! Vai via! Confessai la Signora e me n’andai. Sembra strano, ma l’Arcivescovo era dalla mia parte, anche se non interveniva d’autorità. Mi riceveva e mi ascoltava con attenzione. Un giorno gli chiesi di lasciarmi andare negli Stati Uniti, dove viveva una mia cugina sposata con Walter, e che mi aveva invitato. A Mons. Serena non sembrò vera la richiesta, e acconsentì con la sua benedizione. Scrissi un’accorata lettera ad una Compagnia di Navigazione la cui flotta era composta di sole navi da carico. Chiesi se avessero qualche bastimento con cabine passeggeri, e se volessero offrirmi un viaggio a prezzo stracciato fino a New York, partendo da Napoli. La risposta non si fece attendere. In lei era indicato il nome della nave, il giorno, l’ora di partenza ed il molo d’ormeggio. Sulla nave mi chiamavano il “monsignorino”, e il Comandante gradiva la mia presenza sul Ponte di Comando. Durante la Domenica passata in navigazione, espressero il desiderio di una Messa per l’equipaggio. La celebrai, e la predica rimase nel Diario di Bordo, poiché fu la prima e l’ultima volta che i membri dell’equipaggio potettero assistere ad una celebrazione tutta per loro. Erano commossi a dir poco. A New York vennero a prendermi Walter ed Amelia.

La Città m’incantò non poco, e mi tolse la parola. Attraverso “l’Holland Tunnel” giungemmo a Jersey City dove loro abitavano. Per prima cosa Amelia mi portò dal parroco di “St. Paul”, la sua parrocchia, e mi presentò a lui e agli altri preti. La Chiesa era grande e sontuosa. Il Tempio faceva corpo unico con la canonica, dove i preti vivevano, ognuno con la sua camera, e usufruivano dei servizi comuni, come salone da pranzo, cucina, salotti vari, sale di ricevimento. Paragonando la Canonica con il Plaza, il Michelangelo o il Montana, mi parve essere una farfalla di fronte a moscerini, senza offesa.

I preti statunitensi mi accolsero con piacere, ed il Parroco chiese la mia collaborazione in particolare per gli italiani. Uno di loro, il Padre Mc Kenna, aveva prenotato un posto alla Berlitz School di New York, sulla Quinta Strada, per prendere lezioni d’italiano. M’invitò ad andare con lui per prendere lezioni d’inglese. Amelia e Walter, m’incoraggiarono, ed io frequentai la Scuola con Mc Kenna. L’anno seguente, fu ospite mio a S. Agnello. Il Direttore della Scuola era un italiano. Un giorno gli chiesi come mai i prof cambiano ad ogni lezione, invece del docente unico. Mi rispose che il prof olandese, o spagnolo, o italiano, o cinese, avrebbe parlato inglese sì, ma con accento leggermente diverso. Lo studente per apprendere bene la lingua deve sapere anche questo. I giorni passarono velocemente e la vacanza volgeva al termine. Walter ed Amelia, organizzarono un “party” a casa loro per raccogliere i soldi necessari a pagarmi il viaggio di ritorno in aereo, non più in nave. Così fu! Al ritorno in Italia, dopo l’abbraccio con mia madre, il mio primo dovere si concretizzò con la visita all’Arcivescovo, al quale raccontai tutto per filo e per segno, un po’ in italiano, e un po’ in inglese. Gli espressi contestualmente il desiderio di continuare studiare teologia, dai Gesuiti alla Facoltà di Posillipo. Consenso accordato. Nel settembre del ’66 corsi a perdifiato ad iscrivermi per il conseguimento della Licenza in Teologia. Il Rettore Padre Bruno, mi diede la chiave della cameretta e sollecitò il trasferimento in Facoltà. Tra gli altri docenti c’era Pier Sandro Vanzan, a cui mi legai con amicizia così forte che mai s’è interrotta fino ad oggi; se non vado errato, insegnava anche Giuseppe De Rosa. In questo momento, vivono entrambi alla “Civiltà Cattolica” in Roma.

Facciamo un passo indietro. In uno degli anni burrascosi sopra descritti, ebbi l’occasione d’intrattenere un contatto epistolare con don Vincenzo Cioffi, missionario in Ecuador. La lauta proposta non si fece attendere: Tonino, vieni a stare un poco con me! Invito accettato. Insieme con i genitori di Vincenzo, a Piano, raccogliemmo tra gli amici, un contributo da portare come regalo, 1.000 dollari. Volai fino a Caracas e rimasi una settimana con la famiglia del Console Italiano in Venezuela. Guardando la “cartina”, mi venne voglia di trasferirmi a Quito in bus di linea. Dopo 12 ore giunsi a Bucaramanga verso sera. Bisognava viaggiare ancora 12 ore, ed io ero stanco morto. Parlai con un giovane seduto vicino a me e gli espressi il desiderio di scendere a causa della stanchezza. Che cosa mi consigliava? Lui risiedeva di Bucaramanga, mi propose di scendere, mi accompagnò in albergo e m’indicò l’agenzia di viaggio appena di fronte. Compra il biglietto per l’avionette, poi chiama questo numero, mio cugini ed io, ti accompagneremo all’aeroporto, domani.  In Hotel mi lavai, dormii, e l’indomani, con l’aiuto dei cugini, presi l’aereo e raggiunsi in volo la città di Quito. Da questa meravigliosa città con bus di linea, arrivai di sera ad Esmeraldas, da Vincenzo. Per descrivere la permanenza in Ecuador occorre scrivere un romanzo a parte, e per ora lo evito perché non c’entra per niente, in questa situazione.

Intanto ritorniamo in Via Petrarca, dove sto per iniziare gli studi che mi porteranno al conseguimento della Licenza in Teologia, il 25.06.66, con votazione magna cum laude. Ero fresco, affamato, avido di sapere e m’impegnai al massimo. Avevo una pila di libri sulla destra, alta da terra fino al piano della scrivania. Leggevo, meditavo, appuntavo e poggiavo a terra sulla sinistra, dove pian piano si trasferì la pila dei libri. Frequentavo assiduamente le lezioni ed ebbi il coraggio di seguire anche un corso di tedesco. La tesina finale, andò a buon esito, e dopo gli esami, ero Licenziato in Teologia. Il Rettore, Padre Bruno, mi chiamò, mi rivelò che ero stato il migliore e mi lusingò offrendomi una borsa di studio per la Gregoriana di Roma. Accettai senza battere ciglio, e l’anno seguente 66-67 ero a Piazza della Pilotta. Attaccheremo da questo punto, con la PARTE QUINTA.

Prima che me ne dimentichi, devo annotare che il Parroco di Meta, don Peppino Russo, voleva che ogni domenica, durante la Messa Solenne delle 9,30 da lui celebrata, fossi io a tenere l’omelia al posto suo. Andavo con piacere, e mi sbalordivo che la Basilica Pontificia della Madonna del Lauro, era sempre zeppa di fedeli. Qualcuno mi sussurrò all’orecchio: Veniamo alla Messa delle 9,30 perché predichi tu! Siamo incantati! Il Parroco è molto contento di te! In mezzo a quella marea di miscredenti, fu l’unico, ad avere un buon concetto nei miei riguardi. Vice parroco a Meta, naturalmente, il gatto e la volpe, non mi mandarono. La mia gratitudine per don Peppino è eterna, e il ricordo di quel periodo, incancellabile. Per il momento dico: Grazie!

Un lettore avventato, potrebbe pensare, a questo punto, che la Signora abbia esaurito il suo compito, o che io ne faccia a meno. NO, errore! La Signora voleva tutto questo, perché tutto procedeva secondo i suoi piani. Sentirai più avanti, caro amico, quando agirò di testa mia, a quali sofferenze mi sottoporrà, finché non chiedo scusa e ritorno sui miei passi. Grazie.

 

Fine della “IV Parte”.  Pagina 36.

 

P. 37, segue.

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